Gli ultimi 2 giorni di contrattazione a Wall Street hanno ridato un pò di ossigeno alle quotazioni azionarie, molto depresse a gennaio. L'indice S&P 500 alla fine ha chiuso il mese con un passivo del 5,3%, facendo segnare il suo più grande calo mensile da quando è scoppiata la pandemia, nonché il gennaio più debole dal 2009.
Il mercato azionario ha fortemente risentito di una serie di venti contrari che hanno soffiato forte in questo periodo. A partire dall'aumento imminente dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, proseguendo con il rallentamento della crescita degli utili aziendali, per finire con le tensioni di carattere geopolitico che stanno investendo soprattutto l'Europa dell'Est e che si potranno ripercuotere a livello globale.
Il risultato di gennaio avrebbe potuto essere ancora più pesante se, come accennato, non ci fosse stato uno scatto di Wall Street tra venerdì 28 gennaio e lunedì 31 gennaio, dove il principale indice americano ha recuperato circa il 4%.
Wall Street: segnali confortanti dalla storia
Il punto fondamentale ora è capire se il peggio sia alle spalle, oppure se ci sono ancora da aspettarsi nuove ondate di volatilità che facciano barcollare le quotazioni azionarie. Occorre intanto partire da un dato. Prima dell'inversione di tendenza, vi era stato un 16,58% per il NASDAQ-100 e un 11,97% per l'S&P 500 di massimo drawdown. Questo è un segnale confortante perché, nonostante gli indici abbiano subito cali in doppia cifra, sono rimasti lontani dalla soglia del 20% che indica un mercato ribassista.
Ma vi è un aspetto ancora più importante da considerare: la recessione. Più precisamente, un calo del 20% tende a esaurirsi se non è accompagnato da una recessione e il sell-off in questo caso, una volta superato il 10%, si ferma in media al 15,4%. Facendo un ricorso storico, si nota che dal 1965 a oggi, solamente il crollo del Black Monday del 1987 non ha dato seguito a una recessione; tutti gli altri che hanno comportato una perdita di Wall Street di oltre il 20% dai massimi hanno poi visto l'economia in pesante declino.
L'evento più emblematico è stato durante la Grande Crisi del 2008. Nell'estate dell'anno precedente l'S&P 500 era caduto dell'11,91% allorché era scoppiata questione dei mutui subprime, ha conosciuto una ripresa a ottobre ma, una volta che la recessione è diventata effettiva, è franato del 57,69% nel 2008.
Seguendo la statistica, in condizioni non recessive i mercati salgono di nuovo e riprendono il picco solitamente in un tempo di 4 mesi non appena toccato il fondo. Questo significa che dovremmo aspettare la prossima estate prima di rivedere nuovamente i massimi storici?
Probabile, a patto che l'economia continui a crescere e non subentrino altri fatti che possano farla precipitare nel baratro. La minaccia dell'inflazione e quindi dei tassi Fed è una variabile effettiva ma non è la sola. A questa si potrebbe aggiungere la variante Omicron del Covid-19, i cui effetti sull'economia ancora devono essere definiti del tutto.
Nel frattempo però è lecito attendersi un'alta volatilità e ancora qualche scorribanda ribassista soprattutto sui titoli tecnologici. Il NASDAQ-100 è sceso parecchio portando le valutazioni delle società che ne fanno parte a livelli meno esagerati rispetto alla fine del 2020, ragionando in termini di rapporto tra prezzo delle azioni e utili attesi. Tuttavia l'indice è ancora costoso, quantomeno lo è di più rispetto a quanto lo fosse nel periodo che va dal crollo del 2008 all'arrivo della pandemia.