La prima scelta di un investitore obbligazionario è sempre quella relativa a come incassare il flusso periodico di cedole. Meglio un tasso fisso per sempre oppure uno variabile indicizzato ai tassi ufficiali? Del resto, lo stesso quesito attanaglia il debitore che deve decidere quale è il miglior tasso, solamente che la prospettiva non è quella di chi vuole incassare di più ma piuttosto pagare di meno.
Siccome sul mercato c’è sempre qualcuno che compra scommettendo su un certo andamento dell’asset sottostante e qualcuno che vende sull’andamento opposto, l’efficienza è quasi sempre garantita, specie per quanto riguarda il reddito fisso.
Il 2022 sarà l'anno della rivincita del tasso variabile?
Così come il 2021 è stato l’anno della rivincita del variabile inflation linked sul tasso fisso nominale, questo 2022 sembra diventare l’anno della rivincita del variabile a indici finanziari più tradizionali (ad esempio il LIBOR USD o EUR) sempre sul tasso fisso nominale. Mentre la cedola fissa combinata a scadenze solitamente lunghe che negli anni scorsi gli investitori hanno comprato a piene mani per avere un po' di rendimento dall’asset obbligazionario produce in queste settimane un consistente calo dei corsi dei bond, quella variabile produce gli effetti opposti.
Non solo aumenta il rendimento per effetto di Banche centrali che hanno deciso di contrastare l’inflazione con il rialzo dei tassi, ma i titoli cosiddetti “floater” non soffrono dell’effetto duration di fatto nullo proprio per il frequente aggiornamento della cedola stessa. Gli ETF che investono su obbligazioni a tasso variabile sono solitamente composti da bond corporate e quindi il confronto rispetto al tasso fisso va fatto con strumenti che operano nello stesso comparto.
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Prendendo ad esempio iShares USD Floating Rate Note e mettendolo a confronto con iShares USD Corporate da inizio 2022, nonostante il rischio aperto per entrambi, il gap di performance è impressionante. Il +7% del tasso variabile fa impallidire il -7% del tasso fisso (dati al 23 maggio 2022): ecco cosa significa avere duration in portafoglio a parità di tutti gli altri rischi.
Le cose non vanno meglio a distanza di 12 mesi, con investitori in obbligazioni corporate americane che hanno realizzato zero contro il +14% del tasso variabile. A distanza di 3 anni, con questo sprint 2022 il variabile ha chiuso il gap con il tasso fisso e lo ha superato (+9% contro +4%). Tanti sforzi per studiare una strategia ma alla fine scegliere l’uno o l’altro sarebbe stato indifferente.
A questo punto l’investitore potrebbe lecitamente chiedersi se può avere senso spostare il variabile sul fisso per sfruttare un eventuale nuovo ribasso dei tassi. Premesso che se l’inflazione dovesse continuare a rimanere su livelli così elevati sarà difficile assistere ad una rapida inversione di tendenza sui tassi, l'oltre 4% di rendimento atteso a scadenza da un ETF corporate americano, deve essere contestualizzato in una duration di portafoglio di 9.
Vedere tassi decennali che dal 3% salgono ancora di mezzo punto comporterebbe un sostanziale azzeramento temporaneo del rendimento cedolare di un anno, complice il ribasso dei prezzi. Il rendimento giustifica il rischio? Quello che posso dire è che ad un certo punto il mercato farà capire alla Fed che gli aumenti del costo del denaro sono troppo forti per essere sostenibili.
Inversione della curva dei rendimenti e calo dei prezzi delle azioni saranno un primo sintomo di un malessere, che poco dopo dovrebbe riportare l’interesse verso il reddito fisso con scadenze più lunghe. Già oggi il rendimento dei bond corporate supera di gran lunga i dividendi dei titoli delle società emittenti di quei bond: probabilmente qualche gestore in modo selettivo gli arbitraggi li ha già cominciati.