Recentemente è tornato in voga il cavallo di battaglia maggiormente usato dai detrattori di Bitcoin: l’impatto ambientale derivante dal funzionamento della rete e dal suo processo di creazione, ovvero il “mining”. In passato è stato un tema ampiamente discusso, ma è tornato di attualità il 14 marzo 2022 in seguito alla discussione sul disegno di legge per vietare Bitcoin al Parlamento Europeo e respinto per una manciata di voti.
Da allora sono proliferate manifestazioni e prese di posizione da parte di numerose associazioni ambientaliste, che hanno indotto il partito socialista e quello dei verdi a non abbandonare del tutto l’idea di limitare o combattere le criptovalute basate su algoritmo “Proof-of-Work” (PoW) in Europa, come Bitcoin e le altre che ricorrono al mining per il proprio funzionamento.
Il dibattito si è esteso anche oltreoceano, toccando anche gli Stati Uniti, il paese che fino ad oggi ha mostrato maggior interesse verso la nuova tecnologia dei pagamenti. È avanzata una proposta di legge per vietare il mining nello stato di New York, meno restrittiva di quella europea, poiché non limita lo scambio delle criptovalute coinvolte ed esclude le attività che utilizzano energia rinnovabile.
In questo articolo approfondiremo il consumo energetico dell’attività di mining e l’impatto ambientale che ne deriva. Prima di procedere è consigliato approfondire lo spreco di energia nel mining di Bitcoin e la sua reale utilità.
Quanta energia consuma Bitcoin?
Per capire l’effettivo consumo energetico di Bitcoin è possibile consultare un report esaustivo pubblicato con cadenza trimestrale dal Bitcoin Mining Council, un consorzio di 44 aziende del settore presenti in 5 Continenti, che rappresentano il 50% del network globale. Nel nostro caso abbiamo analizzato i dati più recenti, contenuti nel report relativo al 1° trimestre 2022.
La potenza di calcolo (hash rate) utilizzata dall’intera rete Bitcoin è aumentata del 23% rispetto all’anno precedente, ma al contempo c’è stata una riduzione del 25% del fabbisogno energetico. Questo risultato è stato possibile grazie ad un incremento dell’efficienza del 63%, ottenuto principalmente grazie ai nuovi dispositivi hardware dedicati al mining. Tale dato è destinato a migliorare, come testimoniano gli investimenti e la ricerca di Intel, che porterà presto sul mercato i nuovi processori ASIC ad alta efficienza energetica.
Il mining di Bitcoin consuma lo 0,16% della produzione mondiale di energia ed è responsabile dello 0,085% delle emissioni di CO2. Per avere qualche termine di paragone oggi il mining consuma 247 TW/ora, poco meno di un Paese come il Cile e poco più dell’industria delle luci natalizie a livello globale.
Sicuramente due dati da tenere in considerazione per un’analisi oggettiva sono la rapida crescita del fabbisogno energetico, che ha raggiunto questi livelli in soli 13 anni e le grandi dimensioni di quella che ormai è diventata un’industria, che deve essere trattata al pari di altre realtà e che fornisce lavoro a migliaia di persone nel mondo.
La transizione energetica nel mining è già realtà
L’utilizzo di energie rinnovabili nel mining è arrivato al 58,4%, risultato di gran lunga superiore al Paese più virtuoso al mondo in tal senso, la Germania con il 48,5%. Anche il confronto con altri settori produttivi evidenzia come il mining abbia una spiccata attitudine al modello green. Ma come è possibile che si siano raggiunti risultati così brillanti dal punto di vista della transizione energetica?
La prima ragione è la grande domanda per le criptovalute, che cresce di continuo, e gli ingenti investimenti che le grandi multinazionali sono disposte a mettere in campo per conquistare una fetta del nuovo mercato. Questo fattore spinge fortemente sull’innovazione e sulla tecnologia per ottenere energia al minor costo possibile, che generalmente coincide con quella più pulita.
Il secondo motivo risiede nella possibilità di collocare gli impianti dedicati al mining in qualsiasi luogo, anche quello più desolato e inospitale, favorendo l’utilizzo di energia idroelettrica sulle montagne o fotovoltaica nei deserti. La produzione di Bitcoin può avvenire sul posto e richiede scarsa presenza di personale. Al contrario, i produttori di energia per il settore manifatturiero e residenziale tendono a posizionarsi vicino alle zone di destinazione d’uso per risparmiare sui costi di trasporto.
Cosa si può fare per limitare l’impatto di Bitcoin sul pianeta?
La versatilità nella collocazione degli impianti di mining è già stata sfruttata da colossi petroliferi del calibro di ExxonMobil e ConocoPhilips, che tramite particolari macchinari sfruttano il gas naturale trovato durante le perforazioni petrolifere per il mining di Bitcoin sul posto. Da notare che questo gas trovato lontano dai gasdotti, viene generalmente bruciato mediante una pratica chiamata “gas flaring”, che produce un forte impatto ambientale.
Questo è un bellissimo esempio di come un approccio ponderato sull’industria del mining possa addirittura andare a ridurre le emissioni nell’atmosfera. In altri casi, come abbiamo evidenziato nei dati, un’importante parte del fabbisogno energetico viene già autoprodotta dai miner tramite energia green.
Naturalmente rimane una importante porzione di energia che non potrà essere ottenuta in modo così virtuoso, ma qui è importante pensare all’industria dell’estrazione di Bitcoin come ogni altro settore produttivo. Il mining è un processo che consuma energia, come tante altre attività umane.
Per guadagnarsi la stima e il rispetto riservato ad altre attività industriali, il mining ha dovuto combattere contro numerosi scettici e detrattori e lo ha fatto puntando sul green e sull’innovazione. Per limitare l’impatto di Bitcoin sul pianeta bisogna agire sulla catena di approvvigionamento energetico, esattamente come per tutti gli altri settori.
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