Le dinamiche sulle quotazioni del petrolio nel 2022 hanno riportato alla memoria la drammatica crisi degli anni '70, quando il mondo fu colpito da due violenti shock petroliferi che mandarono in orbita l'inflazione globale innescando una recessione molto profonda. Quest'anno i prezzi del petrolio sono balzati fino a 140 dollari al barile nel mese di marzo, per poi arrivare quasi a dimezzarsi mentre l'anno si appresta alla chiusura. Ripercorriamo le tappe principali di quello che è successo nel 2022, indicando quelle che possono essere le prospettive per l'anno a venire.
Petrolio: cosa ha innescato il rally dei prezzi
Quando nella primavera del 2020 è sopraggiunto il cigno nero del Coronavirus, la domanda del petrolio è scesa vertiginosamente in un momento in cui era già in atto una guerra all'interno dell' OPEC+ tra Arabia Saudita e Russia sull'offerta da piazzare sul mercato: questi due fattori hanno portato ad uno shock mai visto, con i prezzi dei futures che finirono in territorio negativo per la prima volta nella storia.
La graduale riapertura e il risveglio della domanda hanno fatto risalire le quotazioni, ma la crisi energetica innescata dalle problematiche alla catena di approvvigionamento post-Covid hanno contribuito ad accelerare il rally. Dopo lo scoppio della guerra Russia-Ucraina, il 24 febbraio 2022, i prezzi dell'oro nero a marzo sono balzati a quasi 140 dollari al barile, record dal 2008.
L'impeto rialzista è stato tale da soppiantare l'effetto negativo derivante dalla straordinaria forza del dollaro USA, in condizioni normali legato da un rapporto inverso con il petrolio. In sostanza, quando il valore del biglietto verde sale, il petrolio si indebolisce e viceversa. Questo perchè il greggio è quotato in dollari; quindi, se la moneta americana si rafforza, il maggior costo per gli acquirenti non statunitensi ne riduce la domanda e fa diminuire le quotazioni.
Petrolio: Cina e USA a contenere i rialzi
La primavera di quest'anno però è stata anche la stagione in cui il Covid-19 si è riaffacciato minaccioso in Cina ed il Governo che ha reagito con misure draconiane per bloccare la circolazione del virus. La chiusura delle attività ha frenato la domanda del principale consumatore del mondo, facendo in questo modo da tampone al rally portentoso del petrolio. Allo stesso tempo gli Stati Uniti hanno fatto ricorso alle loro scorte strategiche per riequilibrare il mercato e arginare l'aumento dei prezzi alle pompe di benzina.
Petrolio: l'OPEC+ e l'ambiguità dell'Arabia Saudita
Quando si parla di petrolio, un ruolo da assoluto protagonista viene svolto dal cartello dei principali Paesi produttori di greggio. L'OPEC è stato il responsabile del primo shock petrolifero del 1973, così come è stato artefice del terremoto sul mercato dell'oro nero nella primavera di due anni fa. Anche quest'anno ha avuto una sua influenza sulle quotazioni, con comportamenti ambigui da parte del suo massimo rappresentante, l'Arabia Saudita. Riyad aveva concordato con il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden un supporto per venire incontro alla crisi energetica dell'Europa, promettendo di non ridurre l'offerta.
Invece, in occasione della riunione dell'OPEC+ di novembre, è stato concordato un taglio dell'output di 2 milioni di barili al giorno, poi confermato a dicembre, giustificando la mossa con il pericolo di un crollo dei prezzi dovuto al rallentamento dell'economia cinese e alla politica Covid zero attuata dal Dragone. L'organizzazione ritiene che quota 80 dollari sia un livello adeguato all'attuale contesto perchè concilia le esigenze dei Paesi produttori con la necessità di non spingere al rialzo i prezzi al consumo.
Petrolio: l'embargo UE e il price cap
Un colpo importante alle quotazioni del petrolio è stato dato dall'embargo e dal price cap stabiliti dall'Unione Europea sul greggio russo, in vigore dal 5 dicembre. L'embargo era stato già concordato da mesi e consiste nel divieto da parte delle compagnie europee ad acquistare il petrolio russo via mare. Viene fatta eccezione per il greggio che scorre attraverso gli oleodotti, in modo da venire incontro alle esigenze di Paesi come Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, estremamente dipendenti dalle forniture russe via terra.
Quanto al price cap, la decisione è stata presa a ridosso della deadline del 5 dicembre e si basa sulla fissazione del limite di prezzo di 60 dollari per le imprese energetiche internazionali che vogliono assicurarsi presso le compagnie europee o avere altri rapporti di natura commerciale e finanziaria con istituzioni del Vecchio continente.
Petrolio: cosa attendersi per il 2023
Le aspettative per il prossimo anno sono ancora molto incerte. Partendo dai dati certi, si sa che gli hedge fund e altri gestori di fondi che hanno costruito grandi posizioni long sul petrolio, stanno uscendo dal mercato. I dati USA mostrano che la posizione lunga netta sul Brent è arrivata al livello più basso degli ultimi 10 anni, mentre il rapporto tra long e short è al minimo da novembre 2020.
Detto questo, il 2023 si presta a diverse incognite. La principale forse proviene dalla Cina. Secondo diversi analisti, la ripresa della domanda da Pechino, in concomitanza con la rimozione delle misure restrittive sul Covid, potrebbe riportare i prezzi sopra i 100 dollari al barile, annullando di fatto l'effetto della distruzione della domanda stessa generata dai prezzi alti.
Un altro grosso punto interrogativo deriva dal price cap. I Paesi del G7 e l'Australia hanno deciso che oltre 60 dollari non si va, ma grandi consumatori come Cina e India si adegueranno? Considerando che l'abbassamento del prezzo del greggio russo ha attirato le due potenze asiatiche, che hanno fagocitato l'offerta di Mosca, è molto improbabile che si schiereranno con l'Occidente.
E poi, molto dipenderà anche da quanto si riuscirà effettivamente a fare a meno del petrolio, utilizzando altre forme di energia. Autosufficienti energeticamente, gli Stati Uniti non hanno problemi, ma in altre parti del mondo la questione è ancora molto in bilico.