Ricavata da “Whitewashing” (il tentativo di occultare la verità per proteggere o migliorare la reputazione di enti, aziende o prodotti), l’espressione “Greenwashing” è il complesso di strategie, di marketing e di comunicazione, che puntano a fornire una legittimazione ambientale ad un’attività economica.
Volendo spiegare il Greenwashing in poche parole, potremmo parlare di ecologismo di facciata. Con la crescente attenzione dei consumatori nei confronti di questioni come il cambiamento climatico e le tematiche green, spesso le aziende provano a migliorare la percezione che di questa si ha all’esterno tramite richiami all’ambiente che non trovano riscontro in pratiche reali e credibili.
Nel settore finanziario, pratiche sostenibili possono permettere alle aziende di rientrare nei cosiddetti criteri ESG (Environment, Social e Governance, l’attenzione all’ambiente, l’impatto sulla società e la gestione responsabile delle aziende) e quindi di essere incluse in strumenti finanziari che fanno sfoggio di questo marchio.
Per fornire un ambito normativo in grado di identificare se un’attività economica rispetta determinati principi, il parlamento europeo ha adottato la Tassonomia UE con l’intento di definire univocamente, nell’ambito dei mercati finanziari, “l’attività economica sostenibile dal punto di vista ambientale”.
Come capire quando un’azienda sta facendo Greenwashing
Per capire quando un’azienda sta mettendo in pratica il Greenwashing, ci sono alcuni indizi che possono aiutare a svelare che l’ambientalismo è solo di facciata. In genere, i dati e le informazioni fornite non sono puntuali, particolarmente aggiornati e/o certificati da organismi autorevoli. Nei casi più gravi, le informazioni sono falsificate o vengono diffuse notizie non veritiere.
Per riconoscere queste pratiche, basta guardare a come è veicolato il messaggio ambientalistico: un campanello d’allarme è spesso rappresentato proprio da una campagna caratterizzata da un’eccessiva enfasi, da un eccessivo entusiasmo.
Negli anni pratiche di questo genere sono state attribuite a produttori di soft-drink, che invece nella realtà contribuiscono in maniera importante alla produzione di rifiuti plastici, alle aziende petrolifere, che in diverse occasioni hanno erroneamente indicato che gli additivi vegetali presenti nei carburanti riducono l’impatto ambientale ed i consumi, ed a tutte quelle aziende del fast-fashion, non solo abbigliamento ma anche per esempio dell’arredamento, che favoriscono stili di consumo orientati all’acquisto ripetuto dei loro prodotti.
A volte, e sono i casi più lievi di Greenwashing, la motivazione ambientale è utilizzata per altri scopi: nel 1986, l’ambientalista statunitense Jay Westerveld parlò di ambientalismo di facciata facendo riferimento all’invito delle catene alberghiere a ridurre il consumo di asciugamani che, destinato realmente a ridurre i costi di gestione, veniva presentato come un’operazione per minimizzare l’impatto sull’ambiente del lavaggio della biancheria.
I rischi del Greenwashing
Il principale rischio che corre un'azienda che porta avanti pratiche di questo genere è rappresentato dalla perdita di fiducia da parte dei consumatori che, dopo che questa è stata “smascherata”, finiscono per preferirle quelle realtà che non portano avanti finte battaglie ecologiste ma che a questo punto sono percepite come oneste.
Ingannato, un consumatore difficilmente tornerà a fidarsi ed il danno per l’azienda sarà superiore al beneficio che questa avrebbe ottenuto se non fosse stata scoperta.
Secondo una ricerca realizzata da The Fool utilizzando, insieme a Brandwatch e GWI, la piattaforma Audiense, è emerso che, per quasi un italiano su due (48%), le false dichiarazioni di sostenibilità o di impegni ambientali sono il primo disincentivo all’acquisto di un brand.