Da un pò di anni a questa parte la parola Quantitative Easing è stata associata alle crisi economiche e finanziarie. Nel senso che le Banche Centrali vi hanno fatto ricorso ogniqualvolta si manifestavano periodi recessivi in un cui si rendeva necessario adottare forme straordinarie di stimoli monetari.
La prima ad aver adoperato queste misure è stata la Bank of Japan per combattere il fenomeno della deflazione in terra nipponica. Successivamente l'hanno seguita a ruota gli altri principali istituti centrali come la FED, la BoE e la BCE. In misura più contenuta anche la Reserve Bank of Australia, la Reserve Bank of New Zealand e la Central Bank of Canada si sono rifugiate in questo strumento quando la situazione lo richiedeva.
Quantitative Easing: cos'è, come funziona e obiettivi
Ma cosa vuol dire Quantitative Easing? Il termine può essere tradotto come Allentamento Quantitativo o Facilitazione Quantitativa e sta a indicare una politica monetaria con la quale una Banca centrale acquista una grande quantità di titoli pubblici in circolazione in modo da incrementare l'offerta di moneta. Lo scopo è quello di dare gli stimoli all'economia per favorire la ripresa, promuovendo il prestito e di conseguenza creando debito.
Attraverso questo canale si ottiene l'effetto di mantenere bassi i tassi d'interesse generando fiducia negli operatori di mercato. In realtà un istituto centrale funge da prestatore di ultima istanza, ovverosia copre
quell'offerta di titoli che non riesce a trovare corresponsione nella domanda del mercato. Sebbene un'operazione di Quantitative Easing viene accostata alla stampa di cartamoneta, non necessariamente
succede questo. Anzi, gran parte del denaro immesso nell'economia è effettuato con modalità elettronica.
Un altro obiettivo che si vuole raggiungere con tale espansionismo monetario consiste nel rimettere in moto il meccanismo dei prezzi. Questo accade in maniera particolare in quei Paesi che vivono periodi di deflazione o, ancora peggio, di stagflazione. In quel caso la maggiore quantità di moneta in circolo, stimolando la domanda, determina una spirale positiva sui prezzi. Ciò in realtà riconduce maggiormente al mandato di una Banca Centrale, seppure situazioni di necessità abbiano poi portato a utilizzare tale politica monetaria per abbassare il debito pubblico.
Quantitative Easing: aspetti positivi e negativi
Uno degli effetti più positivi dell'alleggerimento monetario consiste nell'evitare che uno Stato possa andare in default, dal momento che il costo del debito si riduce notevolmente. Una fattispecie del genere
si verifica allorché uno Stato è altamente indebitato e deve affrontare tassi di pagamento molto alti quando colloca i propri titoli sul mercato.
La monetizzazione del deficit pubblico serve a prescindere per finanziare la spesa pubblica e quindi favorisce gli investimenti nelle infrastrutture e nelle grandi opere che incoraggiano lo sviluppo di un
Paese. I rischi principali di cui bisogna tenere conto con il Quantitative Easing sono di inflazione e di svalutazione monetaria. La crescita della domanda basata sul debito può innescare un pericoloso meccanismo di surriscaldamento dell'economia, che si accompagna all'aumento dei prezzi.
Questo significa che, con i salari costanti e il potere d'acquisto che si riduce, si configura la possibilità di determinazione di una bolla.
Inoltre, l'allentamento quantitativo incide sui tassi tenendoli bassi, il che vuol dire che la valuta tende a perdere di valore. La svalutazione monetaria avrebbe effetti esiziali nella bilancia commerciale,
soprattutto per quei Paesi il cui peso dell'import è particolarmente significativo.
Quantitative Easing: come è stato effettuato nei vari Paesi
Verso la fine degli anni '90 il Giappone è stato colpito da una terribile deflazione a seguito del crash finanziario di inizio decennio. Il fenomeno ha spinto la Banca Centrale nipponica a introdurre il Q.E.
rendendosi così pioniera in tutto il Mondo. Visti gli scarsi risultati inflazionistici raggiunti, nel 2013 il Q.E. è stato potenziato dal Governatore Haruihiko Kuroda, diventando Q.Q.E., ovvero Quantitative and Quantitative Easing. Il programma è stato avallato dal Premier Shinzo Abe e ha preso il nome di Abenomics.
Con un valore di 1.400 miliardi, il Q.Q.E. si prefiggeva di portare la crescita dei prezzi al 2%, triplicando la base monetaria sui titoli più rischiosi. Gli effetti non sono stati esaltanti, quantomeno se nella
considerazione del tasso inflazionistico si include anche la componente energetica.
La crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti ha fatto scendere in campo la Federal Reserve, che è stata la seconda Banca centrale dopo quella del Sol Levante a mettere in pratica un piano di allentamento monetario. Nel marzo del 2009, il numero uno della FED Ben Bernanke ha iniziato un programma di acquisto di circa 4.500 miliardi di dollari in 6 anni, così distribuiti: 1983 miliardi di titoli federali, 744 miliardi di mutui immobiliari subprime e 1737 miliardi di mutui immobiliari sottostanti. Gli effetti sono stati benefici per tutta l'economia americana, con il PIL che è tornato a crescere oltre la soglia del 2%, la disoccupazione sotto il livello critico del 5% e le quotazioni azionarie hanno iniziato un rally che dura tutt'oggi.
Contemporaneamente agli Stati Uniti, anche la Gran Bretagna ha adottato misure di espansionismo monetario tramite l'acquisto diretto di titoli di Stato. Nel 2009 infatti la Bank of England ha cominciato un piano di 200 miliardi di sterline che nel 2020 è diventato di 895 miliardi. La recessione economica di quegli anni è stato il leit motive dell'intervento della BoE, la quale però si è trovata a un certo punto costretta a fare i conti con tassi di inflazione che hanno sfiorato il 3%. Lo shock di Brexit e l'avvento del Covid hanno mantenuto inalterato l'obiettivo di proseguire sulla strada del Quantitative Easing almeno fin quando l'economia di Sua Maestà non riprende a correre.
L'ultima ad accodarsi tra le grandi Banche Centrali è stata la BCE. La ragione del ritardo è stata dovuta alle discordie interne dei vari Paesi membri dell'Eurozona. La forte resistenza della Bundesbank, molto
restia a rinnegare la sua filosofia di controllo rigoroso dei prezzi, ha fatto da contraltare a pressioni molto forti provenienti dalle colombe di Francoforte. Con l'arrivo di Mario Draghi al timone dell'Eurotower tutto è cambiato. La grave crisi determinata dai debiti sovrani e la sua forte personalità hanno spostato gli equilibri. Così, dopo una serie di prove generali con l'adozione di strumenti come LTRO, TLTRO e ABS, è arrivato l'annuncio il 22 gennaio 2015.
La Banca Centrale Europea acquistava, da marzo 2015 a settembre 2016, 60 miliardi di euro ogni mese di titoli di Stato dell'Eurozona fino a quando il tasso d'inflazione non sarebbe arrivato al 2%. Per la precisione, gli acquisti avvenivano nel mercato secondario da parte delle Banche Nazionali per l'80% e da parte della BCE per il 20%. Nel 2016 il piano è stato potenziato con acquisti passati da 60 a 80 miliardi al mese, poi ridotti gradualmente a 30 miliardi nel 2017, fino a giungere a 15 miliardi da ottobre a dicembre del 2018.
Come effetto primario della potenza di fuoco di Mario Draghi si è avuto essenzialmente un indebolimento costante dell'Euro verso le altre principali divise. In realtà gli obiettivi di inflazione sono rimasti lontani, ma l'incidenza sul costo del debito dell'Eurozona è stata evidente. Gli spread tra i tassi d'interesse dei bond decennali dei Paesi dell'area mediterranea e gli equivalenti Bund tedeschi si è notevolmente abbassato, evitando il default di Stati come l'Italia considerati maggiormente a rischio.